L'INTERVENTO DI MARIO PERSICO AL CONVEGNO "LA CITTA' E LA METROPOLI" DEL 18 GIUNO
di Mario Persico
Chiedo scusa per non poter essere qui con voi, ma una stenosi intestinale mi ha costretto a ricoverarmi e a constatare di persona che la vita degli esseri umani e degli animali dipende inevitabilmente dalla defecazione.
Il mondo, ahimè, è edificato sulla merda. E questa non è né utopia né eresia. Del resto, la “merda” e la “Merdre” di Jarry differiscono per una sola “r”.
Ho ritenuto pertanto opportuno essere presente con un mio breve e certamente banale scritto sul tema che vi accingete ad affrontare. Tuttavia mi sento un intruso fra tanti specialisti e uomini di cultura: io sono soltanto un pittore con qualche curiosità e un po’ di disordinate letture alle spalle.
Chiedo scusa per non poter essere qui con voi, ma una stenosi intestinale mi ha costretto a ricoverarmi e a constatare di persona che la vita degli esseri umani e degli animali dipende inevitabilmente dalla defecazione.
Il mondo, ahimè, è edificato sulla merda. E questa non è né utopia né eresia. Del resto, la “merda” e la “Merdre” di Jarry differiscono per una sola “r”.
Ho ritenuto pertanto opportuno essere presente con un mio breve e certamente banale scritto sul tema che vi accingete ad affrontare. Tuttavia mi sento un intruso fra tanti specialisti e uomini di cultura: io sono soltanto un pittore con qualche curiosità e un po’ di disordinate letture alle spalle.
L’Utopia, a mio avviso, è il prodotto di un pensiero libero da qualunque potere religioso o politico. E’ sempre esistita; non a caso uno degli esempi di utopismo più evidente è La Repubblica di Platone del IV secolo a.C., anche se il termine è stato coniato, se non vado errato, nel ‘500.
Sul termine vi è stata un’interrotta disputa filologica che dimostra che l’Utopia non è un sistema chiuso anche se ancora oggi prevale la convinzione che essa è sinonimo di chimerico, irrealizzabile, impossibile. Gli utopisti sono considerati dei visionari, privi del senso di realtà, e questo probabilmente perché la realtà che nominiamo è ritenuta prendibile, mentre essa non è altro che la fluttuazione di uno sbiadito intreccio di teatro d’ombre dove un piccolo fremito, un alito di vento, può distorcere in anamorfosi illeggibile l’immagine che credevamo di avere conquistata. La realtà è, esiste; forse dipende dal silenzioso determinismo della natura, ma per noi essa è intraducibile, indicibile, allusa ed elusa dalla profusione di metafore grazie alla quale reperiamo la forza di sopravvivere. E’ il potere politico a fare di tutto per raggiungere la metafora definitiva e quindi la convinzione dell’esistenza di una realtà assoluta, per poter imporre la propria onnipotenza e tracotanza. Molta arte nasce dalla consapevolezza dell’implausibilità del reale e per questo la vedo vicina alla grande scienza. Penso all’indigenza allusiva che lo stesso Einstein riscontrava nei segni della sua formula della relatività. Si tratta allora dell’indigenza del lavoro intellettuale , l’indigenza della condizione umana, della consapevolezza di una distanza incolmabile della verità dal reale, di quel coraggio di tenere aperta la ferita tra sé e il mondo. Se non ricordo male è stato Adorno a parlare per primo della capacità di “mantenere lo sguardo fisso all’orrore”.
Bene, checché ne pensino gli scettici, la Patafisica, questa strana scienza delle soluzioni immaginarie, ha sempre saputo riumanizzare l’orrore attraverso l’ironia, il riso, la comicità, lo sberleffo.
L’Utopia non può esistere senza immaginazione. L’ “immaginazione -ha scritto Bachelard- più che inventare cose e drammi, inventa vita nuova; apre occhi che hanno nuove possibilità di visione”.
L’immaginazione dei patafisici non è quella indotta da sistemi culturali dipendenti dalle grandi autocrazie bensì dalla capacità di osservare il mondo da un’angolazione visuale diversa e, quindi, tesa a mettere in campo quelle linee di fuga che modificano il gioco relazionale del potere e di qualunque controllo. In questo senso anche l’Eresia è, in qualche modo, utopistica poichè tende a porre in crisi il dogmatismo di poteri non solo religiosi.
Di eretici la storia del mondo è piena (penso a Galilei, a Bruno, a Moro), persone che pensavano col proprio cervello. Libertà, questa, che oltre a porre in discussione convinzioni prive di qualunque concreto supporto è spesso riuscita a produrre fessure e interstizi nel corpo possente delle istituzioni di potere, attraverso cui è stato possibile insinuare l’inattendibilità di qualunque certezza e a praticare metodi eretici. Quindi ritengo che l’Utopia e l’Eresia sono l’essenza della cultura, la volontà di andare oltre ciò che riteniamo di conoscere, quell’ “andare verso un fantasma” di cui ha scritto Paul Valery nella bella lettera sui miti. La buona cultura è sempre utopistica; penso a Rabelais, Swift, de Bergerac, Ducasse, Roussel, Gaudi, Satie, Buñuel, Leger, Clair, Duchamp, Ernst e altri ancora tra cui Jarry, Vian, Queneau, Baj - ma l’elenco potrebbe continuare per parecchio.
Circa la Bellezza devo dire che mi riesce difficile ritenere che questo “sentimento” possa confluire pienamente nell’Utopia od Eresia anche se un progetto utopico o un comportamento eretico possono senza dubbio essere ritenuti belli oltre che buoni.
Ho l’impressione però che la bellezza dipenda troppo da una data cultura o epoca storica. Inoltre, all’interno di esse, numerosi e contrastanti sono i pensieri relativi al suo significato.
Basti pensare al severo rifiuto di Freud dell’Espressionismo e del Surrealismo, placatosi appena un poco dopo l’incontro con Dalì. E si capisce perché; senza poi tener conto di ciò che i popoli primitivi consideravano bello. Vi sono stati scrittori, come ad esempio Jaen-Iacque Rousseau, convinti che il bello sia strettamente legato al buono o addirittura sia la stessa cosa. Artisti come gli informali che hanno trovato nell’uso di certi materiali, nell’esplorazione rigorosa di una screpolatura, di un grumo, di un pezzo di stoffa, una bruciatura, una diversa bellezza. Ma si tratta sempre di valutazioni soggettive.
Per quanto mi riguarda, ritengo che il problema in arte non sia quello di rincorrere una presunta bellezza ma piuttosto una nuova interpretazione del mondo attraverso la materialità di un linguaggio che scaturisce dalla poetica del suo artefice. Comunque, si tratta di un tema ricco di insidie dal momento che esiste una bellezza quotidianamente consumabile che poco ha a che vedere con la bellezza di cui intendiamo parlare ed è molto difficile separare l’una dall’altra. Si tratta, per non creare equivoci, di tener conto delle derivazioni politiche di alcune asserzioni e convinzioni. Io, da patafisico, penso che il bello sia quasi frutto riposto nell’immaginazione e nella volontà di cambiare questo mondo, anche se consapevole che non basti dire “Olè’” per uccidere il toro.
Possiamo tuttavia pungolarlo senza isteria o nervosismo, con serenità e col sorriso sulle labbra.
Siamo indifferenti verso la verità del reale, convinti che possiamo servirci solo di metafore che ammiccano alla propria inconsistenza. Inconsistenza che non tanto stranamente può concorrere con altri mezzi a minare la certezza di un sistema che per la propria sopravvivenza si serve di molteplici strumenti mediatici per decervellare unicamente l’umanità.
Non intendo continuare ad annoiarvi e, in attesa di vedere più spesso me stesso in un pitale, vi pongo faustrollici saluti e l’augurio di buon lavoro.
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